lunedì 22 aprile 2013

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martedì 9 aprile 2013

... to practice: "Il pensare è per gli stupidi, mentre i cervelluti si affidano all'ispirazione"


From theory.... "Il pensare è per gli stupidi, mentre i cervelluti si affidano all'ispirazione"


IL BARONE RAMPANTE:UNA STORIA DI COERENZA E LIBERTA'

Tutto comincia il 15 giugno 1767 a Ombrosa,una città immaginaria situata sulla costa ligure. Cosimo Piovasco, barone di Rondò, un ragazzo dodicenne figlio di nobili aristocratici in crisi economica, dopo una banale discussione con i genitori decide di abbandonare la sua casa per trascorrere il resto della sua vita sugli alberi.
La famiglia di Cosimo non si distingue per una particolare severità ("la guerra di noi ragazzi contro i grandi era la solita di tutti i ragazzi"): il padre è un uomo noioso, non pensa ad altro che a successioni, rivalità e alleanza con potentati vicini e lontani; la madre, la Generalessa, nonostante l'anima militare nasconde una preoccupazione per il figlio Cosimo; la sorella Battista, poiché in adolescenza si fidanzò con un servo e dal momento che il padre non glielo permise, dovette assumere un ruolo di monaca; il fratello minore Biagio, il narratore della storia, che sempre ammira le scelte del fratello ma che non ha il coraggio nè la forza di seguirlo.
Quella di Cosimo non è una ribellione improvvisata ma una lotta che cova lungamente nel suo animo, che si scontra contro le imposizioni e le autorità di una famiglia che pure egli ama. Infatti l'episodio scatenante del piatto di lumache rifiutato, non solo esprime un atto di sfida contro il padre, ma come spiega il narratore l'ostinazione che ci metteva mio fratello celava qualcosa di più fondo”.
Sugli alberi, Cosimo a poco a poco crea il suo mondo, stabilisce le regole e le norme di comportamento, sovrapponibili a quelli della terra ma meno rigide e più precarie come la sua esistenza. Attraverso le tante avventure che lo coinvolgono, impara a vivere: costruisce una capanna, si cimenta nella caccia, si procura dei vestiti, costruisce un doccia e una biblioteca pensile, acquista un'agilità “selvatica” ,riuscendo quindi a soddisfare i suoi bisogni primari. Ma Cosimo non vive come un eremita, non tronca i rapporti con il genere umano, con la famiglia, con il villaggio, ma si limita a vivere una spanna sopra di loro. Cosimo, con tutta la sua famosa fuga, viveva accosto a noi quasi come prima. Era un solitario che non sfuggiva la gente. Anzi si sarebbe detto che solo la gente gli stesse a cuore”.
Il barone rampante, quindi, si mette sull’alto degli alberi non per fuggire gli altri uomini ma per capirli da una distanza di sicurezza che consenta una vista più panoramica, più ampia e quindi più consapevole. Sembra che voglia sacrificare il mondo degli uomini a favore del nuovo mondo che si costruisce nella Natura, invece forse solo da lassù riesce a vivere l' “umanità” in maniera autentica.
Rifiuta di camminare a terra, ma vive la sua vita dedicandosi agli altri: dagli alberi sa indicare ai contadini se il solco che stavano zappando veniva dritto o storto, o se nel campo del vicino erano già maturi i pomodori” , riesce a spegnere gli incendi nel bosco, s'offriva ai contadini per piccole commissioni, fa nuovi incontri e nuove amicizie anche con persone “che noi non s'incontra[...] carbonai, calderai, vetrai, famiglie spinte dalla fame lontano dalle loro campagne […] [cosicché] gli incontri umani erano, se pur più rari, tali da imprimersi nell’animo”.
Non mancano nella vita di Cosimo incontri amorosi, dapprima con Ursula, figlia di un nobiluomo, Don Frederico, appartenente ed un gruppo di spagnoli alla quale però deve rinunciare poiché gli viene chiesto di abbandonare la vita sugli alberi, poi con Viola figlia dei Marchesi d'Ondariva nonché vicina di casa, con la quale vive un amore pieno di emozioni, piaceri ma anche gelosie, sofferenze. Dopo l'ultima delle tante discussioni con Cosimo partì da Ombrosa e non vi tornò più.
Il fatto caratteristico è che tutti i personaggi de “Il barone rampante” sono persone che vivono in solitudine: questo a riprova del fatto che non c’è una differenza sostanziale tra il barone che vive sugli alberi e gli altri che vivono sulla Terra. L'unica differenza è una consapevolezza diversa: il barone, poiché libero, sceglie volontariamente di stare sugli alberi, sa di essere isolato e questo gli procura delle lenti conoscitive che possono fargli vedere meglio la realtà. Gli altri invece che sono a terra presumono di essere in società mentre non riescono a vedere lontano come Cosimo.
Molteplici e diversi sono i livelli di significato in questo libro. Uno di questi potrebbe essere l'incarnazione in Cosimo dei giovani di oggi che fuggono da una realtà che non comprendono, verso un mondo immaginato e fantastico tutto da ricreare.
Siamo i ragazzi dell’era telematica,che dai nostri computer abbiamo uno sguardo privilegiato sul mondo. In questa realtà virtuale la nostra vita “in cima ad un albero” ci offre un orizzonte illimitato, uno sguardo sulla realtà più ampio di quello dei nostri padri. Eppure la nostra esistenza è precaria come i rami su cui vive Cosimo
che sembrano forti all'apparenza ma che si rivelano poi vulnerabili ad ogni genere di pericolo.
Mentre da una parte sembra che l'uomo sovrasti il mondo, dall'altra sappiamo che ognuno di noi è solo, oppresso dal lavoro, dalle persone, dalla stressante routine quotidiana e forse Calvino vuole raccontare la condizione propria dell'uomo invitandoci a vivere la vita in modo più distaccato da tutto ciò che ci circonda per ritrovare noi stessi e quindi poter vivere meglio nella collettività.
Non casualmente Cosimo è un filosofo, e il racconto è ambientato in un preciso periodo storico, il settecento, dove la filosofia illuminista e gli ideali della Rivoluzione Francese insieme rappresentano il simbolo dello splendore e della libertà di pensiero.
E' facile indovinare che Calvino stia parlando di ognuno di noi: i suoi personaggi sono descritti sempre e solo dal punto di vista caratteriale e mai da quello fisico.
Calvino è anticipatore, inoltre, della cultura ecologista e ambientalista :Poi, bastò l’avvento di generazioni più scriteriate, d’imprevidente avidità, gente non amica di nulla, neppure di se stessa, e tutto ormai è cambiato, nessun Cosimo potrà più incedere per gli alberi.
Ma come si conclude il libro? Cosimo, diventato una persona celebre per la sua stravaganza nonché per la sua cultura, ormai è anziano e pur stando male, trascorre le sue giornate sull'albero al centro della piazza d'Ombrosa, tant’è che poi morirà portato via da quello che è lo strumento tecnologico simbolo del ‘700, la mongolfiera, alla quale si attacca dalla cima dell'albero facendo perdere le sue tracce e mantenendo la promessa di non mettere più piede a terra, nemmeno da morto.

Alcune citazioni dal libro:

Capì questo: che le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone (mentre vivendo per proprio conto capita più spesso il contrario, di vedere l’altra faccia della gente, quella per cui bisogna tener sempre la mano alla guardia della spada).[...] Cosimo dovrà capire che quando quel problema comune non c’è più, le associazioni non sono più buone come prima, e val meglio essere un uomo solo e non un capo.”

Cominciò in quel tempo a scrivere un “Progetto di Costituzione d’uno Stato ideale fondato sopra gli alberi”, in cui descriveva l’immaginaria Repubblica d’Arbòrea, abitata da uomini giusti. Lo cominciò come un trattato sulle leggi e i governi ma scrivendo la sua inclinazione d’inventore di storie complicate ebbe il sopravvento e ne uscì uno zibaldone d’avventure, duelli e storie erotiche, inserite, quest’ultime, in un capitolo sul diritto matrimoniale. L’epilogo del libro avrebbe dovuto essere questo: l’autore, fondato lo Stato perfetto in cima agli alberi e convinta tutta l’umanità a stabilirvisi e a vivere felice, scendeva ad abitare sulla terra rimasta deserta. Avrebbe dovuto essere, ma l’opera restò incompiuta”.

I suoi alberi ora erano addobbati di fogli scritti e anche di cartelli con massime di Seneca e
Shaftesbury, e di oggetti: ciuffi di penne, ceri da chiesa, falciuole, corone, busti da donna, pistole,
bilance, legati l’uno all’altro in un certo ordine. La gente d’Ombrosa passava le ore a cercar
d’indovinare cosa volevano dire quei rebus: i nobili, il Papa, la virtù, la guerra, e io credo che certe
volte non avessero nessun significato ma servissero solo ad aguzzare l’ingegno e a far capire che
anche le idee più fuori del comune potevano essere le giuste.”

Come questa passione che Cosimo sempre dimostrò per la vita associata si conciliasse con la
sua perpetua fuga dal consorzio civile, non ho mai ben compreso, e ciò resta una delle non minori singolarità del suo carattere. Si direbbe che egli, più era deciso a star rintanato tra i suoi rami, più sentiva il bisogno di creare nuovi rapporti col genere umano. Ma per quanto ogni tanto si buttasse, anima e corpo, a organizzare un nuovo sodalizio, stabilendone meticolosamente gli statuti, le finalità, la scelta degli uomini più adatti per ogni carica, mai i suoi compagni sapevano fino a che punto potessero contare su di lui, quando e dove potevano incontrarlo, e quando invece sarebbe stato improvvisamente ripreso dalla sua natura da uccello e non si sarebbe lasciato più acchiappare. Forse, se proprio si vuole ricondurre a un unico impulso questi atteggiamenti contraddittori, bisogna pensare che egli fosse ugualmente nemico d’ogni tipo di convivenza umana vigente ai tempi suoi, e
perciò tutti li fuggisse, e s’affannasse ostinatamente a sperimentarne di nuovi: ma nessuno d’essi gli pareva giusto e diverso dagli altri abbastanza; da ciò le sue continue parentesi di selvatichezza assoluta. Era un’idea di società universale, che aveva in mente.”



UN'ULTERIORE ISPIRAZIONE

LE CITTA' INVISIBILI - ITALO CALVINO


Il libro si presenta come un resoconto di viaggi, un insieme di racconti e di descrizioni di città che Marco Polo, viaggiatore per eccellenza, fornisce all’imperatore dei Tartari Kublai Kan. Le numerose conquiste che si susseguono non apportano più, come da giovane, gioie e orgoglio al sovrano, ma, al contrario, lo terrorizzano, poiché, divenuto consapevole dell’impossibilità di governare la vastità del suo impero, sa che non potrà far nulla per evitare la rovina dell’impero stesso, dove regna disordine e sfacelo. Solo nei racconti di Marco Polo riesce a trovare un filo che sembra dare ordine alle cose. L’imperatore, seppur affascinato dal modo in cui Marco Polo racconta dei suoi viaggi, non sa se credere alle sue parole, infatti i dialoghi tra i due protagonisti sono ricchi di commenti, riflessioni e interrogativi. Marco Polo non parla di città reali ma sono frutto della sua immaginazione, sono città che esistono solo nella sua mente, città invisibili agli occhi degli altri. Queste descrizioni fantasiose scaturiscono, però, da immagini reali:è lo stesso autore che lo sottolinea nella presentazione del libro, quando ci racconta che l’opera è nata un pezzo alla volta, e non come un romanzo di fantasia. Erano ricordi di viaggi di luoghi visitati, un’unione di pensieri e riflessioni che appuntava sulla carte: “Era diventato un po’ come un diario che seguiva i miei umori e le mie riflessioni;tutto finiva per trasformarsi in immagini di città: i libri che leggevo, le esposizioni d’arte che visitavo, le discussioni con gli amici[pag VI]. In queste descrizioni, leggiamo nettamente l’immagine della megalopoli attuale, della città continua che sempre più prende piede, conquistando il territorio rimanente, nonché la crisi della vita urbana che rende sempre più invivibili le città: un’anticipazione di circa quarant’anni del nostro presente. E allora Marco Polo, vuole capire le ragioni che hanno portato gli uomini a vivere nelle città, ragioni che devono valere al di là della crisi attuale.
I prototipi di città descritti da Marco Polo hanno tutti nomi di donna, non si trovano sull’atlante, sono atemporali, non si sa quindi se appartengano al passato, al presente o al futuro, e soprattutto sono mondi circoscritti, indipendenti, che non entrano in rapporto tra di loro, non interagiscono, cosicché il libro perde una possibile sequenza cronologica e gerarchica diventando una rete in cui possono essere tracciati diversi percorsi. Come quando viaggiamo nessuno ci obbliga a seguire un preciso percorso, così il libro si può leggere in modi alternativi, dall’inizio alla fine, dalla fine all’inizio,da metà e così via, e quindi infinite saranno le conclusioni. Troviamo in tutto nove blocchi narrativi racchiusi all’inizio e alla fine da dialoghi tra i due protagonisti i quali rappresentano le due categorie della mente umana: Marco Polo segue le sensazioni, l’immaginazione ( parla attraverso i ricordi, l’inconscio) Kublai Kan segue invece la ragione ( vuole sapere dove si trovano le città di cui parla Marco Polo, se esistono). In tal modo l’autore risulta sdoppiato anche se è la prospettiva dell’esploratore che tende a prevalere, mentre la ragione è usata come contraddittorio. Gli spazi narrati non sono geometrici ma mentali e hanno allo stesso tempo una dimensione fiabesca e una dimensione metropolitana, quindi contemporanea. Del resto, la caratteristica fondamentale del libro è la duplicità: si parla della vita e della morte, della felicità e dell’infelicità, del fantastico e dell’analisi razionale della realtà.
Le città sono un insieme di una molteplicità di elementi che Italo Calvino ha catalogato in undici serie, e ho deciso così di esporre le mie considerazione seguendo quest’ordine.

Le città e la memoria
In tutte le descrizioni di questa serie, si legge una nostalgia per le città del passato, persiste una memoria di un’antica felicità che ritroviamo in immagini ingiallite di città o in qualche cartolina come nel racconto di Maurilia: il viaggiatore, dice Marco Polo, preferisce la graziosa vecchia Maurilia alla metropoli attuale, magnificente e prosperosa. Ma le cose cambiano, soprattutto le città, crescono, si evolvono e non si può dire se la città contemporanea sia migliore di quella passata in quanto“ non esiste tra loro alcun rapporto, così come le vecchie cartoline non rappresentano Maurilia com’era, ma un’altra città che per caso si chiamava Maurilia come questa[pag 30]. Quindi, se Maurilia fosse rimasta tale e quale, sicuramente nulla di grazioso si vedrebbe oggi, ma lo si vede solo perché vivo nel ricordo: spesso si ha nostalgia di una cosa solo perché appartiene al passato. Ma la città non può rimanere immutata nel tempo, altrimenti farebbe la fine di Zora, la città immobile che non cambia mai per conservare intatta la propria immagine: ciò è impossibile e per questo, dice Calvino, nessuno è mai riuscito a trovare Zora. O ancora Diomira , descritta come una città lussuosa e magnificente, rimane impressa nella memoria del viaggiatore non per il lusso ma per la bellezza che ha nelle giornate di settembre, con una particolare luce del giorno, un particolare gioco di riflessi che risveglia nel passeggero momenti di una passata felicità.

Le città e il desiderio
In questa serie l’argomento centrale è la città ideale: ognuno di noi ha un modello di città ideale che forse sembra scaturire “dal caso e della mente” [pag.42], come pensa Kublai Kan, ma, in realtà, le città sono come i sogni, ribatte Marco, sono costruite da desideri e paure. In una frase emblematica racchiude il suo pensiero:“ D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”, quindi la città è lo specchio di ciò che desideri. Ma gli stessi desideri mutano con il tempo, non puoi imprigionarli,come cercano di fare gli abitanti di Zobeide che, avendo sognato di inseguire una bellissima fanciulla che correva nella notte, costruiscono la città seguendo il percorso del sogno e la circondano di mura, aspettando che la scena si ripetesse nella realtà e la fanciulla non potesse più scappare. La scena del sogno mai si rivide. Despina, invece, ci dimostra come “Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone[pag.18]: al cammelliere che viene dal deserto appare come una nave che lo porterà in salvo, mentre al marinaio che viene dal mare come una gobba di un cammello che lo libererà dal deserto delle acque.

Le città e i segni
La città è colma di segni, ma solo alcuni di essi lasciano intravedere la sua vera essenza, gli altri la celano.“Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte:la città dice tutto quello che devi pensare[pag 14]. Così dice Marco Polo quando descrive Tamara, città che ti sembra di visitare ma che, in realtà, si definisce da sola. Tutte le città sono diverse, perché diversi sono i suoi segni, le sue caratteristiche .“In ogni città dell’impero ogni edificio è differente e disposto in un diverso ordine” ma rimangono punti riconoscibili. Se una città non ha segni particolari, non si capisce più quale sia il dentro e quale sia il fuori, come nella città di Zoe, dove le diversità e le particolarità non esistono e senza punti di riferimento ci si perde. I segni della città, però, devono essere cercati bene, perché leggere una città è “difficile come leggere una mano” : saper leggere la città vuol dire saper leggere i suoi segni, altrimenti si cade in inganno come ad Ipazia, la città che nasconde giovani suicide sotto una bellissima laguna azzurra che rispecchia un giardino di magnolie.

Le città sottili
Il tema di questa serie è la leggerezza fisica della città e mentale dell’uomo. La città di Zenobia è sospesa su palafitte, anche se il terreno sottostante è asciutto, e cresce verso l’alto toccando quasi il cielo. E’ una città felice, poiché prende forma dai desideri dei suoi abitanti: se si chiedesse, infatti, agli abitanti di descrivere una città felice, descriverebbero una nuova città diversa da Zenobia, ma che contiene gli stessi suoi elementi secondo una diversa combinazione. Ottavia, la città-ragnatela, è sospesa nel vuoto, ma gli abitanti non la abbandonano, anzi “la [loro] vita è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge[pag.34],quindi riescono a godere delle cose più piccole e più fragili, liberandosi dal peso dell’inconsapevolezza. E cosa c’è di più fragile se non la natura, la madre Terra? E’ questo che vuole sottolineare Calvino quando ci parla di Armilla, la città dei giochi d’acqua dove non vi abitano gli uomini e non ci sono pareti né pavimenti: solo acqua e ninfe. Ma come nasce Armilla? E’ stata costruita dagli uomini “per ingraziarsi le ninfe offese per la manomissione delle acque[pag.48],oppure le ninfe hanno scacciato via gli uomini? L’autore lascia a noi la risposta. E infine Sofronia la città divisa in una parte del lavoro e una parte del gioco, metafora di una realtà attuale: non si può vivere di soli “oneri” ma ci devono essere anche momenti di leggerezza nella vita di un uomo.

Le città e gli scambi
Gli scambi sono alla base della costituzione di una città, determinano i rapporti tra gli abitanti. Così accade a Eufemia città in cui avvengono continui scambi di merce ma, dice Marco Polo, ciò che spinge i mercanti ad arrivare fin qui non è tanto la possibilità di scambio di mercanzie ma soprattutto lo scambio di memorie, la possibilità di comunicare. La notte, intorno al fuoco, i mercanti raccontano agli altri le loro storie, le loro avventure e sanno che “nel lungo viaggio che ti attende, quando per restare sveglio al dondolio del cammello […] ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa..”[pag35]:quelle storie si confonderanno con le proprie. A Cloe tutto sembra immobile: le persone non si conoscono e non si parlano, ma al guardarsi ognuno immagina l’avvenire dell’altro. Così si consumano incontri tra le anime, senza scambio di parole. In Eutropia gli abitanti quando sono annoiati cambiano casa, mestiere, parenti così la loro vita si rinnova, in realtà solo gli attori sono cambiati, le scene recitate no: Eutropia permane identica a se stessa.

Le città e gli occhi
Qui si vede come la prospettiva da cui si guarda la città, influisce sulla sua percezione. Gli abitanti di Zemrude decidono loro stessi se essere o meno felici: se si decide di camminare a testa alta, si vedranno davanzali con i fiori, giochi d’acqua e voli di rondine; se si cammina a testa bassa, si vedranno solo tombini e cartacce. A Bauci gli individui non abitano la Terra, ma la contemplano dall’alto da trampolini: l’uomo, guardando ciò che lo circonda da un’altra prospettiva, potrà capire che bisogna far qualcosa per non uccidere l’essenza delle cose. Fillide è una città che in ogni suo punto offre sorprese alla vista del viaggiatore, ma non a quella di chi la abita: pian piano si sbiadiscono i colori e la città diviene invisibile. Per mantenere la sua bellezza bisogna sempre coglierla di sorpresa.

Le città e il nome
Il tema qui affrontato è quello del linguaggio. Italo Calvino ci dimostra che il nome ( il significante) non può esistere senza concetto ( il significato). I racconti delle città sembrano non coincidere con la realtà: Leandra è protetta da dèi di due specie che si contendono l’anima della città: i Lari, che si installano negli alloggi e mai si spostano, i Penati che seguono invece le famiglie e i loro spostamenti; l’Aglaura di cui si parla “ha molto di quel che ci vuole per esistere”, l’Aglaura che si vede è come se non esistesse.” Quello che s’è detto d’Aglaura finora imprigiona le parole e t’obbliga a ridire anziché a dire”[pag 65]; Marco Polo immagina Pirra solo attraverso il nome, e l’immagine di città che si trova davanti è del tutto diversa: “Pirra era diventata ciò che è Pirra”; Clarice, che più volte muore e rinasce, soccombe e viene ricostruita, cambia nel tempo ma “restano il nome, l’ubicazione, e gli oggetti più difficili da rompere”[pag105]. La parola quindi non è un mezzo, lo dimostra il fatto che il significante, da solo, non esiste: se pensiamo a un nome la nostra mente automaticamente associa un’immagine, un significato. Ma allora perché sotto un unico nome abbiamo diverse immagini? Perché anche se Clarice cambia nel tempo le diamo lo stesso nome? Chi ha ragione, i Lari o i Penati? Di un’unica realtà si può parlare in infiniti modi, ciascuno vero ma parziale, a seconda delle nostre esperienze collegheremo diverse idee a una parola.

Le città e i morti
Il tema di questa serie è il rapporto che l’uomo ha con l’idea della morte. Eusapia è una città divisa in due, quella sopra dei vivi e quella sottoterra dei morti. I morti apportano modifiche alla loro città e i vivi, per non essere da meno, ne copiano le sembianze, “ dicono che nelle due città gemelle non ci sia più modo di sapere quali sono i vivi e quali i morti[pag108]. L’uomo non si rassegna alla morte, e nella paura non riesce a vedere l’importanza delle piccole cose. Laudonia è una città divisa in tre, quella dei vivi, quella dei morti e quella dei non-nati. Lo spazio dei non-nati, però, non è proporzionato al loro numero che si suppone infinito e quando i vivi vanno a interrogare i non-nati, chiedono di sé e non di quelli che verranno: non si curano di costruire un futuro migliore per gli altri ma mirano solo al loro presente.

Le città e il cielo
Qui si indaga sul rapporto tra l’imperfezione dell’uomo e la perfezione del cielo. A Eudossia l’immagine ideale della città è disegnata su un tappeto, ed è diversa dalla sua immagine reale. Una delle due, dice l’oracolo, è di fattura divina, l’altra è opera umana. Marco Polo pone il dubbio su quale delle due si è ispirata al cielo stellato: se il tappeto è divino, Eudossia-città è solo un mero riflesso dell’altro, altrimenti è l’Universo ad essere una macchia senza forma. Tecla è in continua costruzione “gru tirano su altre gru[…]travi puntellano altre travi”[pag.124], è una costruzione senza fine, perché irraggiungibile è il progetto: il cielo stellato. Un altro tentativo fallito di creare una copia dell’Universo è avvenuto con Perinzia, i cui calcoli sbagliati portarono la città ad essere abitata da mostri. Andria invece è riuscita a seguire l’ordine delle costellazioni ma, nonostante ciò, non rimane immutabile: ci sono dei cambiamenti che, però, non sconvolgono il legame con il cielo, anzi, dicono gli abitanti che “ogni cambiamento d’Andria comporta qualche novità tra le stelle […], la città e il cielo non restano mai uguali”[pag.147].

Le città continue
Leonia rifà se stessa tutti i giorni poiché ogni mattina i suoi abitanti buttano via tante cose per far posto ad altre nuove e diverse. Cosicchè, fuori dalla città, si innalzano montagne di immondezzai, ed è facile immaginare la fine che farà Leonia. Trude è una città che anche se si visita per la prima volta, già si conosce alla perfezione, perché uguale alle altre città. A Procopia il viaggiatore ogni anno va nella stessa locanda, nella stessa camera per ammirare il bel paesaggio che si vede dalla finestra. Di anno in anno, però, questo paesaggio viene popolato da individui che si contendono il cibo, fino a che il paesaggio non è più visibile,“anche il cielo è sparito”[pag 143]. Cecilia è una città che, nel tempo, invade tutto ciò che la circonda, prati, foreste, campi tanto che un pastore si perde nella città e ne rimane intrappolato, riconoscendo qua e là ciò che rimane dei suoi prati, come le erbe dello spartitraffico che appartenevano al Prato della Salvia Bassa. E infine Pentesilea, in cui “sono ore che avanzi e non ti è chiaro se sei già in mezzo alla città o fuori” [pag 152], perché disordinata e non riconoscibile. Le città continue sono una chiara ed evidente descrizione delle città contemporanee: troppo simili tra di loro, in continua evoluzione, accanto alla presunzione dell’uomo di modificare la natura, e inondate di cambiamenti continui e forse troppo repentini.

Le città nascoste
Con questa ultima serie Calvino afferma che ogni città possiede già la sua immagine futura e dobbiamo fare in modo che possa emergere il bello e il giusto, e non la peste. Olinda è la città che cresce a cerchi concentrici, dall’interno verso l’esterno trascinando sempre più lontano la città di prima. Raissa appare una città infelice, piena di sgomento nelle case e per le strade. Eppure a ogni momento c’è un bambino che ride guardando un cane che salta per prendere un pezzo di polenta, un’ostessa che, felice, serve un piatto di ragù, e tante altre piccole scene che convivono con un’infelicità diffusa: “la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere”. Teodora è una città che ha sopravvissuto a ogni tipo di minaccia e ora gli abitanti credono di aver vinto definitivamente: non sanno che “una fauna dimenticata si stava risvegliando dal letargo” [pag 155], e sarà un ciclo senza fine, in quanto è l’uomo l’artefice di tutti gli squilibri.

Molti spunti di riflessione ritroviamo nelle descrizioni delle città, ma anche negli stralci di dialogo tra Marco Polo e Kublai Kan. A questo punto dovremmo chiederci quale sia la relazione tra questi racconti “fiabeschi” e il vasto e malato impero dell’imperatore. Marco Polo risponde chiaramente a questo dubbio :“Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora s'intravedono ne misuro la penuria. Se vuoi saper quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane.". Com’è la nostra città oggi? E come sarà? “L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno e’ quello che e’ già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo e’ rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non e’ inferno e farlo durare e dargli spazio” [pag.160].

sabato 6 aprile 2013

Vincenzo Colella said..


"Non è mai esistita una comunità.. non sono mai riuscito a mettere insieme più di cinque persone. Al Villaggio Olimpico la socialità, il calore umano non esiste."