IL
BARONE RAMPANTE:UNA STORIA DI COERENZA E LIBERTA'
Tutto
comincia il 15 giugno 1767 a Ombrosa,una città immaginaria situata
sulla costa ligure. Cosimo Piovasco, barone di Rondò, un ragazzo
dodicenne figlio di nobili aristocratici in crisi economica, dopo una
banale discussione con i genitori decide di abbandonare la sua casa
per trascorrere il resto della sua vita sugli alberi.
La
famiglia di Cosimo non si distingue per una particolare severità
("la
guerra di noi ragazzi contro i grandi era la solita di tutti i
ragazzi"):
il padre è un uomo noioso, non pensa ad altro che a successioni,
rivalità e alleanza con potentati vicini e lontani; la madre, la
Generalessa, nonostante l'anima militare nasconde una preoccupazione
per il figlio Cosimo; la sorella Battista, poiché in adolescenza si
fidanzò con un servo e dal momento che il padre non glielo permise,
dovette assumere un ruolo di monaca; il fratello minore Biagio, il
narratore della storia, che sempre ammira le scelte del fratello ma
che non ha il coraggio nè la forza di seguirlo.
Quella
di Cosimo non è una ribellione improvvisata ma una lotta che cova
lungamente nel suo animo, che si scontra contro le imposizioni e le
autorità di una famiglia che pure egli ama. Infatti l'episodio
scatenante del piatto di lumache rifiutato, non solo esprime un atto
di sfida contro il padre, ma come spiega il narratore
“l'ostinazione
che ci metteva mio fratello celava qualcosa di più fondo”.
Sugli
alberi, Cosimo a poco a poco crea il suo mondo, stabilisce le regole
e le norme di comportamento, sovrapponibili a quelli della terra ma
meno rigide e più precarie come la sua esistenza. Attraverso le
tante avventure che lo coinvolgono, impara a vivere: costruisce una
capanna, si cimenta nella caccia, si procura dei vestiti, costruisce
un doccia e una biblioteca pensile, acquista un'agilità “selvatica”
,riuscendo quindi a soddisfare i suoi bisogni primari. Ma Cosimo non
vive come un eremita, non tronca i rapporti con il genere umano, con
la famiglia, con il villaggio, ma si limita a vivere una spanna sopra
di loro. “Cosimo,
con tutta la sua famosa fuga, viveva accosto a noi quasi come prima.
Era un solitario che non sfuggiva la gente. Anzi si sarebbe detto che
solo la gente gli stesse a cuore”.
Il
barone rampante, quindi, si mette sull’alto degli alberi non per
fuggire
gli altri uomini ma per capirli da una distanza di sicurezza che
consenta una vista
più
panoramica, più ampia e quindi più consapevole.
Sembra
che voglia
sacrificare il mondo degli uomini a favore del nuovo mondo che si
costruisce nella Natura, invece forse solo da lassù riesce a vivere
l' “umanità” in maniera autentica.
Rifiuta
di camminare a terra, ma vive la sua vita dedicandosi agli altri:
dagli alberi sa indicare ai contadini “se
il solco che stavano zappando veniva dritto o storto, o se nel campo
del vicino erano già maturi i pomodori” ,
riesce a spegnere gli incendi nel bosco, s'offriva ai contadini per
piccole commissioni, fa nuovi incontri e nuove amicizie anche con
persone “che
noi non s'incontra[...] carbonai, calderai, vetrai, famiglie spinte
dalla fame lontano dalle loro campagne […] [cosicché]
gli incontri umani erano, se pur più rari, tali da imprimersi
nell’animo”.
Non
mancano nella vita di Cosimo incontri amorosi, dapprima con Ursula,
figlia di un nobiluomo, Don Frederico, appartenente ed un gruppo di
spagnoli alla quale però deve rinunciare poiché gli viene chiesto
di abbandonare la vita sugli alberi, poi con Viola figlia dei
Marchesi d'Ondariva nonché vicina di casa, con la quale vive un
amore pieno di emozioni, piaceri ma anche gelosie, sofferenze. Dopo
l'ultima delle tante discussioni con Cosimo partì da Ombrosa e non
vi tornò più.
Il
fatto caratteristico è che tutti i personaggi de “Il barone
rampante” sono persone che vivono in solitudine: questo a riprova
del fatto che non c’è una differenza sostanziale tra il barone che
vive sugli alberi e gli altri che vivono sulla Terra. L'unica
differenza è una consapevolezza diversa: il barone, poiché libero,
sceglie volontariamente di stare sugli alberi, sa di essere isolato e
questo gli procura delle lenti conoscitive che possono fargli vedere
meglio la realtà. Gli altri invece che sono a terra presumono di
essere in società mentre non riescono a vedere lontano come Cosimo.
Molteplici
e diversi sono i livelli di significato in questo libro. Uno di
questi potrebbe essere l'incarnazione in Cosimo dei giovani di oggi
che fuggono da una realtà che non comprendono, verso un mondo
immaginato e fantastico tutto da ricreare.
Siamo i ragazzi
dell’era telematica,che dai nostri computer abbiamo uno sguardo
privilegiato sul mondo. In questa realtà virtuale la nostra vita “in
cima ad un albero” ci offre un orizzonte illimitato, uno sguardo
sulla realtà più ampio di quello dei nostri padri. Eppure la nostra
esistenza è precaria come i rami su cui vive Cosimo
che sembrano forti all'apparenza ma che si rivelano poi vulnerabili
ad ogni genere di pericolo.
Mentre
da una parte sembra che l'uomo sovrasti il mondo, dall'altra sappiamo
che ognuno di noi è solo, oppresso dal lavoro, dalle persone, dalla
stressante routine quotidiana e forse Calvino vuole raccontare la
condizione propria dell'uomo invitandoci a vivere la vita in modo più
distaccato da tutto ciò che ci circonda per ritrovare noi stessi e
quindi poter vivere meglio nella collettività.
Non
casualmente Cosimo è un filosofo, e il racconto è ambientato in un
preciso periodo storico, il settecento, dove la filosofia illuminista
e gli ideali della Rivoluzione Francese insieme rappresentano il
simbolo dello splendore e della libertà di pensiero.
E'
facile indovinare che Calvino stia parlando di ognuno di noi: i suoi
personaggi sono descritti sempre e solo dal punto di vista
caratteriale e mai da quello fisico.
Calvino
è anticipatore, inoltre, della cultura ecologista e ambientalista
:“Poi,
bastò l’avvento di generazioni più scriteriate, d’imprevidente
avidità, gente non amica di nulla, neppure
di se stessa, e tutto ormai è cambiato, nessun Cosimo potrà più
incedere per gli alberi.”
Ma
come si conclude il libro? Cosimo, diventato una persona celebre per
la sua stravaganza nonché per la sua cultura, ormai è anziano e pur
stando male, trascorre le sue giornate sull'albero al centro della
piazza d'Ombrosa, tant’è che poi morirà portato via da quello che
è lo strumento tecnologico simbolo del ‘700, la mongolfiera, alla
quale si attacca dalla cima dell'albero facendo perdere le sue tracce
e mantenendo la promessa di non mettere più piede a terra, nemmeno
da morto.
Alcune citazioni dal libro:
“Capì
questo: che le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in
risalto le doti migliori delle singole persone, e danno la gioia che
raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente
c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose
buone (mentre vivendo per proprio conto capita più spesso il
contrario, di vedere l’altra faccia della gente, quella per cui
bisogna tener sempre la mano alla guardia della spada).[...] Cosimo
dovrà capire che quando quel problema comune non c’è più, le
associazioni non sono più buone come prima, e val meglio essere un
uomo solo e non un capo.”
“Cominciò
in quel tempo a scrivere un “Progetto di Costituzione d’uno Stato
ideale fondato sopra gli alberi”, in cui descriveva l’immaginaria
Repubblica d’Arbòrea, abitata da uomini giusti. Lo cominciò come
un trattato sulle leggi e i governi ma scrivendo la sua inclinazione
d’inventore di storie complicate ebbe il sopravvento e ne uscì uno
zibaldone d’avventure, duelli e storie erotiche, inserite,
quest’ultime, in un capitolo sul diritto matrimoniale. L’epilogo
del libro avrebbe dovuto essere questo: l’autore, fondato lo Stato
perfetto in cima agli alberi e convinta tutta l’umanità a
stabilirvisi e a vivere felice, scendeva ad abitare sulla terra
rimasta deserta. Avrebbe dovuto essere, ma l’opera restò
incompiuta”.
“I
suoi alberi ora erano addobbati di fogli scritti e anche di cartelli
con massime di Seneca e
Shaftesbury,
e di oggetti: ciuffi di penne, ceri da chiesa, falciuole, corone,
busti da donna, pistole,
bilance,
legati l’uno all’altro in un certo ordine. La gente d’Ombrosa
passava le ore a cercar
d’indovinare
cosa volevano dire quei rebus: i nobili, il Papa, la virtù, la
guerra, e io credo che certe
volte
non avessero nessun significato ma servissero solo ad aguzzare
l’ingegno e a far capire che
anche
le idee più fuori del comune potevano essere le giuste.”
“Come
questa passione che Cosimo sempre dimostrò per la vita associata si
conciliasse con la
sua
perpetua fuga dal consorzio civile, non ho mai ben compreso, e ciò
resta una delle non minori singolarità del suo carattere. Si direbbe
che egli, più era deciso a star rintanato tra i suoi rami, più
sentiva il bisogno di creare nuovi rapporti col genere umano. Ma per
quanto ogni tanto si buttasse, anima e corpo, a organizzare un nuovo
sodalizio, stabilendone meticolosamente gli statuti, le finalità, la
scelta degli uomini più adatti per ogni carica, mai i suoi compagni
sapevano fino a che punto
potessero contare su di lui, quando e dove potevano incontrarlo, e
quando invece sarebbe stato improvvisamente ripreso dalla sua natura
da uccello e non si sarebbe lasciato più acchiappare. Forse,
se proprio si vuole ricondurre a un unico impulso questi
atteggiamenti contraddittori, bisogna pensare
che egli fosse ugualmente nemico d’ogni tipo di convivenza umana
vigente ai tempi suoi, e
perciò
tutti li fuggisse, e s’affannasse ostinatamente a sperimentarne di
nuovi: ma nessuno d’essi gli pareva
giusto e diverso dagli altri abbastanza; da ciò le sue continue
parentesi di selvatichezza assoluta.
Era un’idea di società universale, che aveva in mente.”
UN'ULTERIORE ISPIRAZIONE
LE CITTA' INVISIBILI - ITALO CALVINO
Il
libro si presenta come un resoconto di viaggi, un insieme di racconti
e di descrizioni di città che Marco Polo, viaggiatore per
eccellenza, fornisce all’imperatore dei Tartari Kublai Kan. Le
numerose conquiste che si susseguono non apportano più, come da
giovane, gioie e orgoglio al sovrano, ma, al contrario, lo
terrorizzano, poiché, divenuto consapevole dell’impossibilità di
governare la vastità del suo impero, sa che non potrà far nulla per
evitare la rovina dell’impero stesso, dove regna disordine e
sfacelo. Solo nei racconti di Marco Polo riesce a trovare un filo che
sembra dare ordine alle cose. L’imperatore, seppur affascinato dal
modo in cui Marco Polo racconta dei suoi viaggi, non sa se credere
alle sue parole, infatti i dialoghi tra i due protagonisti sono
ricchi di commenti, riflessioni e interrogativi. Marco Polo non parla
di città reali ma sono frutto della sua immaginazione, sono città
che esistono solo nella sua mente, città invisibili agli occhi degli
altri. Queste descrizioni fantasiose scaturiscono, però, da immagini
reali:è lo stesso autore che lo sottolinea nella presentazione del
libro, quando ci racconta che l’opera è nata un pezzo alla volta,
e non come un romanzo di fantasia. Erano ricordi di viaggi di luoghi
visitati, un’unione di pensieri e riflessioni che appuntava sulla
carte: “Era
diventato un po’ come un diario che seguiva i miei umori e le mie
riflessioni;tutto finiva per trasformarsi in immagini di città: i
libri che leggevo, le esposizioni d’arte che visitavo, le
discussioni con gli amici”
[pag
VI].
In queste descrizioni, leggiamo nettamente l’immagine della
megalopoli attuale, della città continua che sempre più prende
piede, conquistando il territorio rimanente, nonché la crisi della
vita urbana che rende sempre più invivibili le città:
un’anticipazione di circa quarant’anni del nostro presente. E
allora Marco Polo, vuole capire le ragioni che hanno portato gli
uomini a vivere nelle città, ragioni che devono valere al di là
della crisi attuale.
I
prototipi di città descritti da Marco Polo hanno tutti nomi di
donna, non si trovano sull’atlante, sono atemporali, non si sa
quindi se appartengano al passato, al presente o al futuro, e
soprattutto sono mondi circoscritti, indipendenti, che non entrano in
rapporto tra di loro, non interagiscono, cosicché il libro perde una
possibile sequenza cronologica e gerarchica diventando una rete in
cui possono essere tracciati diversi percorsi. Come quando viaggiamo
nessuno ci obbliga a seguire un preciso percorso, così il libro si
può leggere in modi alternativi, dall’inizio alla fine, dalla fine
all’inizio,da metà e così via, e quindi infinite saranno le
conclusioni. Troviamo in tutto nove blocchi narrativi racchiusi
all’inizio e alla fine da dialoghi tra i due protagonisti i quali
rappresentano le due categorie della mente umana: Marco Polo segue le
sensazioni, l’immaginazione ( parla attraverso i ricordi,
l’inconscio) Kublai Kan segue invece la ragione ( vuole sapere
dove si trovano le città di cui parla Marco Polo, se esistono). In
tal modo l’autore risulta sdoppiato anche se è la prospettiva
dell’esploratore che tende a prevalere, mentre la ragione è usata
come contraddittorio. Gli spazi narrati non sono geometrici ma
mentali e hanno allo stesso tempo una dimensione fiabesca e una
dimensione metropolitana, quindi contemporanea. Del resto, la
caratteristica fondamentale del libro è la duplicità: si parla
della vita e della morte, della felicità e dell’infelicità, del
fantastico e dell’analisi razionale della realtà.
Le
città sono un insieme di una molteplicità di elementi che Italo
Calvino ha catalogato in undici serie, e ho deciso così di esporre
le mie considerazione seguendo quest’ordine.
Le
città e la memoria
In
tutte le descrizioni di questa serie, si legge una nostalgia per le
città del passato, persiste una memoria di un’antica felicità
che ritroviamo in immagini ingiallite di città o in qualche
cartolina come nel racconto di Maurilia: il viaggiatore, dice Marco
Polo, preferisce la graziosa vecchia Maurilia alla metropoli attuale,
magnificente e prosperosa. Ma le cose cambiano, soprattutto le città,
crescono, si evolvono e non si può dire se la città contemporanea
sia migliore di quella passata in quanto“
non esiste tra loro alcun rapporto, così come le vecchie cartoline
non rappresentano Maurilia com’era, ma un’altra città che per
caso si chiamava Maurilia come questa”
[pag
30].
Quindi, se Maurilia fosse rimasta tale e quale, sicuramente nulla di
grazioso si vedrebbe oggi, ma lo si vede solo perché vivo nel
ricordo: spesso si ha nostalgia di una cosa solo perché appartiene
al passato. Ma la città non può rimanere immutata nel tempo,
altrimenti farebbe la fine di Zora, la città immobile che non cambia
mai per conservare intatta la propria immagine: ciò è impossibile e
per questo, dice Calvino, nessuno è mai riuscito a trovare Zora. O
ancora Diomira , descritta come una città lussuosa e magnificente,
rimane impressa nella memoria del viaggiatore non per il lusso ma per
la bellezza che ha nelle giornate di settembre, con una particolare
luce del giorno, un particolare gioco di riflessi che risveglia nel
passeggero momenti di una passata felicità.
Le
città e il desiderio
In
questa serie l’argomento centrale è la città ideale: ognuno di
noi ha un modello di città ideale che forse sembra scaturire “dal
caso e della mente”
[pag.42],
come pensa Kublai Kan, ma, in realtà, le città sono come i sogni,
ribatte Marco, sono costruite da desideri e paure. In una frase
emblematica racchiude il suo pensiero:“ D’una
città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la
risposta che dà a una tua domanda”,
quindi la città è lo specchio di ciò che desideri. Ma gli stessi
desideri mutano con il tempo, non puoi imprigionarli,come cercano di
fare gli abitanti di Zobeide che, avendo sognato di inseguire una
bellissima fanciulla che correva nella notte, costruiscono la città
seguendo il percorso del sogno e la circondano di mura, aspettando
che la scena si ripetesse nella realtà e la fanciulla non potesse
più scappare. La scena del sogno mai si rivide. Despina, invece, ci
dimostra come “Ogni
città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”
[pag.18]:
al cammelliere che viene dal deserto appare come una nave che lo
porterà in salvo, mentre al marinaio che viene dal mare come una
gobba di un cammello che lo libererà dal deserto delle acque.
Le
città e i segni
La
città è colma di segni, ma solo alcuni di essi lasciano intravedere
la sua vera essenza, gli altri la celano.“Lo
sguardo percorre le vie come pagine scritte:la città dice tutto
quello che devi pensare”
[pag
14]. Così
dice Marco Polo quando descrive Tamara, città che ti sembra di
visitare ma che, in realtà, si definisce da sola. Tutte le città
sono diverse, perché diversi sono i suoi segni, le sue
caratteristiche .“In
ogni città dell’impero ogni edificio è differente e disposto in
un diverso ordine”
ma rimangono punti riconoscibili. Se una città non ha segni
particolari, non si capisce più quale sia il dentro e quale sia il
fuori, come nella città di Zoe, dove le diversità e le
particolarità non esistono e senza punti di riferimento ci si perde.
I segni della città, però, devono essere cercati bene, perché
leggere una città è “difficile
come leggere una mano”
: saper leggere la città vuol dire saper leggere i suoi segni,
altrimenti si cade in inganno come ad Ipazia, la città che nasconde
giovani
suicide sotto
una bellissima laguna azzurra che rispecchia un giardino di magnolie.
Le
città sottili
Il
tema di questa serie è la leggerezza fisica della città e mentale
dell’uomo. La città di Zenobia è sospesa su palafitte, anche se
il terreno sottostante è asciutto, e cresce verso l’alto toccando
quasi il cielo. E’ una città felice, poiché prende forma dai
desideri dei suoi abitanti: se si chiedesse, infatti, agli abitanti
di descrivere una città felice, descriverebbero una nuova città
diversa da Zenobia, ma che contiene gli stessi suoi elementi secondo
una diversa combinazione. Ottavia, la città-ragnatela, è sospesa
nel vuoto, ma gli abitanti non la abbandonano, anzi “la
[loro]
vita
è
meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non
regge”
[pag.34],quindi
riescono a godere delle cose più piccole e più fragili, liberandosi
dal peso dell’inconsapevolezza. E cosa c’è di più fragile se
non la natura, la madre Terra? E’ questo che vuole sottolineare
Calvino quando ci parla di Armilla, la città dei giochi d’acqua
dove non vi abitano gli uomini e non ci sono pareti né pavimenti:
solo acqua e ninfe. Ma come nasce Armilla? E’ stata costruita dagli
uomini “per
ingraziarsi le ninfe offese per la manomissione delle acque”
[pag.48],oppure
le ninfe hanno scacciato via gli uomini? L’autore lascia a noi la
risposta. E infine Sofronia la città divisa in una parte del lavoro
e una parte del gioco, metafora di una realtà attuale: non si può
vivere di soli “oneri” ma ci devono essere anche momenti di
leggerezza nella vita di un uomo.
Le
città e gli scambi
Gli
scambi sono alla base della costituzione di una città, determinano i
rapporti tra gli abitanti. Così accade a Eufemia città in cui
avvengono continui scambi di merce ma, dice Marco Polo, ciò che
spinge i mercanti ad arrivare fin qui non è tanto la possibilità di
scambio di mercanzie ma soprattutto lo scambio di memorie, la
possibilità di comunicare. La notte, intorno al fuoco, i mercanti
raccontano agli altri le loro storie, le loro avventure e sanno che
“nel
lungo viaggio che ti attende, quando per restare sveglio al dondolio
del cammello
[…] ci
si mette a ripensare tutti i propri ricordi, il tuo lupo sarà
diventato un altro lupo, tua sorella una sorella
diversa..”[pag35]:quelle
storie si confonderanno con le proprie. A Cloe tutto sembra immobile:
le persone non si conoscono e non si parlano, ma al guardarsi ognuno
immagina l’avvenire dell’altro. Così si consumano incontri tra
le anime, senza scambio di parole. In Eutropia gli abitanti quando
sono annoiati cambiano casa, mestiere, parenti così la loro vita si
rinnova, in realtà solo gli attori sono cambiati, le scene recitate
no: Eutropia permane identica a se stessa.
Le
città e gli occhi
Qui
si vede come la prospettiva da cui si guarda la città, influisce
sulla sua percezione. Gli abitanti di Zemrude decidono loro stessi se
essere o meno felici: se si decide di camminare a testa alta, si
vedranno davanzali con i fiori, giochi d’acqua e voli di rondine;
se si cammina a testa bassa, si vedranno solo tombini e cartacce. A
Bauci gli individui non abitano la Terra, ma la contemplano dall’alto
da trampolini: l’uomo, guardando ciò che lo circonda da un’altra
prospettiva, potrà capire che bisogna far qualcosa per non uccidere
l’essenza delle cose. Fillide è una città che in ogni suo punto
offre sorprese alla vista del viaggiatore, ma non a quella di chi la
abita: pian piano si sbiadiscono i colori e la città diviene
invisibile. Per mantenere la sua bellezza bisogna sempre coglierla di
sorpresa.
Le
città e il nome
Il
tema qui affrontato è quello del linguaggio. Italo Calvino ci
dimostra che il nome ( il significante) non può esistere senza
concetto ( il significato). I racconti delle città sembrano non
coincidere con la realtà: Leandra è protetta da dèi di due specie
che si contendono l’anima della città: i Lari, che si installano
negli alloggi e mai si spostano, i Penati che seguono invece le
famiglie e i loro spostamenti; l’Aglaura di cui si parla “ha
molto di quel che ci vuole per esistere”,
l’Aglaura che si vede è come se non esistesse.” Quello
che s’è detto d’Aglaura finora imprigiona le parole e t’obbliga
a ridire anziché a dire”[pag 65]; Marco
Polo immagina Pirra solo attraverso il nome, e l’immagine di città
che si trova davanti è del tutto diversa: “Pirra
era diventata ciò che è Pirra”;
Clarice,
che più volte muore e rinasce, soccombe e viene ricostruita, cambia
nel tempo ma “restano
il nome, l’ubicazione, e gli oggetti più difficili da
rompere”[pag105]. La
parola quindi non è un mezzo, lo dimostra il fatto che il
significante, da solo, non esiste: se pensiamo a un nome la nostra
mente automaticamente associa un’immagine, un significato. Ma
allora perché sotto un unico nome abbiamo diverse immagini? Perché
anche se Clarice cambia nel tempo le diamo lo stesso nome? Chi ha
ragione, i Lari o i Penati? Di un’unica realtà si può parlare in
infiniti modi, ciascuno vero ma parziale, a seconda delle nostre
esperienze collegheremo diverse idee a una parola.
Le
città e i morti
Il
tema di questa serie è il rapporto che l’uomo ha con l’idea
della morte. Eusapia è una città divisa in due, quella sopra dei
vivi e quella sottoterra dei morti. I morti apportano modifiche alla
loro città e i vivi, per non essere da meno, ne copiano le
sembianze, “
dicono che nelle due città gemelle non ci sia più modo di sapere
quali sono i vivi e quali i morti”
[pag108].
L’uomo
non si rassegna alla morte, e nella paura non riesce a vedere
l’importanza delle piccole cose. Laudonia è una città divisa in
tre, quella dei vivi, quella dei morti e quella dei non-nati. Lo
spazio dei non-nati, però, non è proporzionato al loro numero che
si suppone infinito e quando i vivi vanno a interrogare i non-nati,
chiedono di sé e non di quelli che verranno: non si curano di
costruire un futuro migliore per gli altri ma mirano solo al loro
presente.
Le
città e il cielo
Qui
si indaga sul rapporto tra l’imperfezione dell’uomo e la
perfezione del cielo. A Eudossia l’immagine ideale della città è
disegnata su un tappeto, ed è diversa dalla sua immagine reale. Una
delle due, dice l’oracolo, è di fattura
divina, l’altra
è opera umana. Marco Polo pone il dubbio su quale delle due si è
ispirata al cielo stellato: se il tappeto è divino, Eudossia-città
è solo un mero riflesso dell’altro, altrimenti è l’Universo ad
essere una macchia
senza forma. Tecla
è in continua costruzione “gru
tirano su altre gru[…]travi puntellano altre travi”[pag.124],
è una costruzione senza fine, perché irraggiungibile è il
progetto: il cielo stellato. Un altro tentativo fallito di creare una
copia dell’Universo è avvenuto con Perinzia, i cui calcoli
sbagliati portarono la città ad essere abitata da mostri. Andria
invece è riuscita a seguire l’ordine delle costellazioni ma,
nonostante ciò, non rimane immutabile: ci sono dei cambiamenti che,
però, non sconvolgono il legame con il cielo, anzi, dicono gli
abitanti che “ogni
cambiamento d’Andria comporta qualche novità tra le stelle […],
la città e il cielo non restano mai uguali”[pag.147].
Le
città continue
Leonia
rifà se stessa tutti i giorni poiché ogni mattina i suoi abitanti
buttano via tante cose per far posto ad altre nuove e diverse.
Cosicchè, fuori dalla città, si innalzano montagne di immondezzai,
ed è facile immaginare la fine che farà Leonia. Trude è una città
che anche se si visita per la prima volta, già si conosce alla
perfezione, perché uguale alle altre città. A Procopia il
viaggiatore ogni anno va nella stessa locanda, nella stessa camera
per ammirare il bel paesaggio che si vede dalla finestra. Di anno in
anno, però, questo paesaggio viene popolato da individui che si
contendono il cibo, fino a che il paesaggio non è più
visibile,“anche
il cielo è sparito”[pag 143].
Cecilia è una città che, nel tempo, invade tutto ciò che la
circonda, prati, foreste, campi tanto che un pastore si perde nella
città e ne rimane intrappolato, riconoscendo qua e là ciò che
rimane dei suoi prati, come le erbe dello spartitraffico che
appartenevano al Prato della Salvia Bassa. E infine Pentesilea, in
cui “sono
ore che avanzi e non ti è chiaro se sei già in mezzo alla città o
fuori” [pag 152], perché
disordinata e non riconoscibile. Le città continue sono una chiara
ed evidente descrizione delle città contemporanee: troppo simili tra
di loro, in continua evoluzione, accanto alla presunzione dell’uomo
di modificare la natura, e inondate di cambiamenti continui e forse
troppo repentini.
Le
città nascoste
Con
questa ultima serie Calvino afferma che ogni città possiede già la
sua immagine futura e dobbiamo fare in modo che possa emergere il
bello e il giusto, e non la peste.
Olinda è la città che cresce a cerchi concentrici, dall’interno
verso l’esterno trascinando sempre più lontano la città di prima.
Raissa appare una città infelice, piena di sgomento nelle case e per
le strade. Eppure a ogni momento c’è un bambino che ride guardando
un cane che salta per prendere un pezzo di polenta, un’ostessa che,
felice, serve un piatto di ragù, e tante altre piccole scene che
convivono con un’infelicità diffusa: “la
città infelice contiene una città felice che nemmeno sa
d’esistere”. Teodora
è una città che ha sopravvissuto a ogni tipo di minaccia e ora gli
abitanti credono di aver vinto definitivamente: non sanno che “una
fauna dimenticata si stava risvegliando dal letargo”
[pag
155],
e sarà un ciclo senza fine, in quanto è l’uomo l’artefice di
tutti gli squilibri.
Molti
spunti di riflessione ritroviamo nelle descrizioni delle città, ma
anche negli stralci di dialogo tra Marco Polo e Kublai Kan. A questo
punto dovremmo chiederci quale sia la relazione tra questi racconti
“fiabeschi” e il vasto e malato impero dell’imperatore. Marco
Polo risponde chiaramente a questo dubbio :“Il
fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di
felicità che ancora s'intravedono ne misuro la penuria. Se vuoi
saper quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche
luci lontane.".
Com’è la nostra città oggi? E come sarà? “L'inferno
dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno e’ quello che
e’ già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo
stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce
facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto
di non vederlo più. Il secondo e’ rischioso ed esige attenzione e
apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa,
in mezzo all'inferno, non e’ inferno e farlo durare e dargli
spazio” [pag.160].